Scusate la mia sparizione, ma sono ritornato i Italia per qualche giorno e mi è stato difficile aggiornare il sito. Come saprete l'ex-dittatore Pinochet è morto, tra il pianto di alcuni e il giubilo di (credo) molti. Un po' di commenti, per non dimenticare (inizio con un "moderato" come Sergio Romano):
Il tiranno ambiguo e il té con la ThatcherSe potesse dare un’occhiata alla carta politica dell’America Latina negli anni ’70, il lettore constaterebbe che i regimi erano quasi tutti autoritari e che i generali, anche quando non esercitavano direttamente il potere, lo sorvegliavano dalle caserme e non perdevano occasione per richiamare all’ordine i governi. Ma Augusto Ugarte y Pinochet, presidente del Cile dal 1973, divenne immediatamente per la maggior parte delle democrazie occidentali il peggiore dei tiranni, il simbolo della reazione, l’uomo più detestabile dell’emisfero meridionale.
L’atto d’accusa era lungo. Aveva ucciso una promettente democrazia. Era direttamente o indirettamente responsabile della morte di un presidente socialdemocratico, amato e ammirato dall’opinione progressista europea. Aveva brutalmente perseguitato i suoi oppositori. Aveva trescato con i servizi segreti degli Stati Uniti. Aveva creato con i suoi colleghi della regione una spietata organizzazione poliziesca che inseguiva e colpiva, anche al di fuori delle Americhe, i militanti della democrazia latino- americana. E aveva sfruttato il potere per accumulare all’estero una considerevole fortuna. Quando cadde nella rete di un giudice spagnolo, durante un viaggio a Londra, un ministro laburista ricordò di avere sfilato per le vie della sua città nel 1973 contro i responsabili del golpe cileno. Ed è probabile che i suoi ricordi abbiano avuto una certa influenza sul modo in cui il governo britannico cercò di assecondare per qualche settimana la politica giudiziaria del magistrato Garzon.
Fra un tiranno vivo e un tiranno morto corre tuttavia una fondamentale differenza. Il vivo va criticato e combattuto. Il morto deve essere collocato nel suo contesto storico e, nei limiti del possibile, spiegato. Occorre ricordare anzitutto che per più di vent’anni, dopo la rivoluzione castrista del 1959 e lo sbarco degli esuli cubani nella Baia dei Porci, l’America Latina oscillò continuamente fra avventure populiste, colpi di Stato militari, tentativi rivoluzionari, guerriglia urbana. Mentre le sinistre denunciavano i putsch e i golpe della destra, i moderati dell’Occidente contemplavano con preoccupazione la spedizione rivoluzionaria del Che in Bolivia, le operazioni dei montoneros in Argentina e dei tupamaros in Uruguay, i maoisti di Sendero Luminoso in Perù: un cocktail rivoluzionario composto da un po’ di marxismo, una dose non piccola di vecchio anarchismo spagnolo e molto comunismo cinese, vale a dire la speranza che la rivoluzione, dopo quanto era accaduto a Cuba, potesse scoppiare anche là dove l’economia aveva caratteri prevalentemente agricoli e il proletariato era contadino. Chi ebbe l’occasione di visitare l’America Latina in quegli anni ricorda le postazioni di mitragliatrici sui tetti degli aeroporti e la presenza ossessiva di uomini armati in qualsiasi cerimonia ufficiale.
In questo panorama di regimi traballanti, continuamente in bilico fra rivoluzione e reazione, esisteva un caso a parte. Nella seconda metà degli anni Sessanta il Cile era il Paese prediletto dalle democrazie cristiane dell’Occidente, il regime politico in cui Eduardo Frei, eletto alla presidenza nel settembre 1964, avrebbe dimostrato che la via europea alla democrazia era possibile. L’elezione di Salvador Allende suscitò qualche preoccupazione per la forte presenza di gruppi massimalisti nella suamaggioranza, maera pur sempre un evento democratico. La situazione cominciò a peggiorare quando fu chiaro che Allende era un uomo probo, stimabile, animato dalle migliori intenzioni, ma troppo debole per controllare i suoi alleati più radicali e per resistere alle loro pressioni. Il golpe fu opera di Pinochet e di una conventicola di militari, sostenuti in una forma o nell’altra dal governo degli Stati Uniti. Ma Allende non sarebbe caduto così rapidamente se il putsch delle forze armate non fosse stato preceduto dalle clamorose proteste dei ceti sociali e delle categorie professionali (i camionisti ad esempio) che erano scesi in piazza per protestare contro una politica economica visibilmente sbagliata e una inflazione galoppante.
Dopo la conquista del potere Pinochet si comportò come Franco dopo la fine della guerra civile spagnola. Anziché proporsi la riconciliazione nazionale, fece perseguitare, imprigionare, torturare ed eliminare migliaia di dissenzienti. Tutti i governi democratici europei deplorarono gli avvenimenti cileni e alcuni di essi richiamarono in patria gli ambasciatori. Ma molti, fra cui probabilmente la Santa Sede, tirarono un sospiro di sollievo. Comincia da quel momento la lunga stagione dell’ambiguità. Il regime era autoritario e repressivo, ma chiedeva consigli, per la riforma del suo sistema pensionistico, a Milton Friedman, vale a dire all’astro nascente del monetarismo liberale, e lanciava evidenti segnali di progresso economico. Quando scoppiò la guerra delle Falkland, Pinochet, anziché schierarsi con i colleghi argentini, sostenne la Gran Bretagna: un gesto che gli assicurò da quel momento la stima e la riconoscenza di Margaret Thatcher. Ripercorrendo le tappe della sua vicenda londinese, i cronisti ricorderanno che qualche giorno prima del suo arresto il generale aveva preso il tè con la Lady di Ferro. Fra tanti vizi e manifestazioni di spietata durezza, il regime di Pinochet ebbe il merito di organizzare, sia pure con qualche riluttanza, la sua uscita di scena. La costituzione del 1981 confermò il generale per sette anni alla presidenza della Repubblica, ma stabilì che il rinnovo del suo mandato sarebbe stato sottoposto a un referendum popolare. E il popolo, quando poté votare, lo congedò con il 56% di no. Se nel 1998, dieci anni dopo, non fosse andato a Londra per un intervento chirurgico, il corso della storia cilena sarebbe stato forse diverso. Ma il suo ritorno in patria, dopo le disavventure londinesi, e le tortuose peripezie giudiziarie di questi ultimi anni, dimostra che Pinochet continuò a essere sino alla fine, per i democratici del suo Paese, un caso delicato da maneggiare con molta cautela. Chiusa la bara, tutto forse diventerà più semplice. Ma toccherà ai cileni, non a noi, scrivere l’ultimo capitolo di questa storia latino-americana.
Sergio Romano
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