L'America Latina non trova molto spazio sui media italiani. Questo blog cerca di colmare una piccola parte di questo vuoto, attraverso l'adattamento in italiano di notizie sulla politica e l'economia latinoamericane scovate su quotidiani stranieri. Naturalmente, non mancherò di citare e segnalare siti e articoli in lingua italiana, quando se ne presenterà l'occasione. Buona lettura!

giovedì, dicembre 28, 2006


La Corte Suprema argentina ordina la restituzione di fondi del “corralito”
La Corte Suprema argentina ha ordinato la restituzione di praticamente il 100% dei depositi bancari denominati in dollari di circa 50.000 argentini accorsi ai tribunali contro gli effetti del decreto di conversione in pesos emesso dal ministro dell’economia Cavallo (vedi foto) a inizio del 2002, durante il governo Duhalde, che provocò una perdita del 66% del valore dei loro risparmi, in termini reali. Da un lato la sentenza riconosce le perdite economiche dei cittadini andati a giudizio dall’altro però avalla la legalità del provvedimento deciso nel pieno della crisi per chiudere l’epoca della dollarizzazione dell’economia propugnata durante l’epoca di Menem. Le banche dovranno infatti pagare la quantità stabilità dalla corte in pesos (a un tasso di cambio di 1,40 per dollaro, contro il tasso attuale di circa tre pesos per dollaro, più un recupero dell’inflazione annuale e gli interessi maturati).
http://www.elpais.es/

martedì, dicembre 12, 2006


Quella lunga scia di sangue che indignò il mondo

Quella fotografia in bianco e nero - con il presidente socialista del Cile Salvator Allende, in testa l'elmetto, un mitra decisamente inusuale nelle sue mani, che annunciava di voler morire nel Palazzo presidenziale già bombardato dai golpisti - divenne un simbolo fino a condizionare i sentimenti politici di intere generazioni in tutto l'Occidente. Era l'11 settembre del 1973. Dopo mesi di forti tensioni sociali l'attacco al palazzo della Moneda segnava l'epilogo del colpo di stato contro il governo Allende, guidato dal capo dell'esercito che lo stesso Allende aveva nominato. Ed era l'inizio di anni di feroce dittatura, di repressione, di un cruento bagno di sangue nelle fila degli oppositori (o dei sostenitori dell'esperienza Allende) contro cui insorsero le coscienze in tutti i paesi democratici. Nei primi tre anni di dittatura furono imprigionati almeno 130 mila oppositori. Nelle prime settimane dopo il golpe il mondo intero fu sconvolto dai racconti (e poi dalle rare testimonianze fotografiche) delle migliaia di cileni imprigionati nello stadio di Santiago. Molti passati per le armi, molti torturati (una enorme impressione destò la fine di Victor Jara, uno dei cantanti simbolo del "nuovo Cile" cui furono spezzate le mani prima di essere ucciso). E nel linguaggio comune entrò per la prima volta il terribile termine di "desaparecido". Gli scomparsi, le migliaia di oppositori catturati e uccisi che costituiscono la lunga scia di sangue di diciassette anni di dittaura e per i quali in vita - insistono le vittime - non ha pagato. Non si è mai riuscito a stabilire con esattezza nemmeno quante siano state le vittime fatte sparire dal regime cileno. Cifre ufficiali parlarono di circa duemila persone, ma i dissidenti hanno stimato in ottantamila gli oppositori politici morti dopo essere passati per le carceri speciali del regime. Ancora oggi, in Cile e in tanti Paesi del mondo, ci sono famiglie che non sono mai riuscite a ritrovare le tracce dei loro parenti.
La repressione, e la costante paura di un ritorno dell'opposizione nei primi anni di regime, portò a una oppressione e alla caccia senza esclusione di colpi agli oppositori, fino agli assassinii in altri paesi. Migliaia di cileni scelgono la via dell'esilio. L'esperienza e la cultura che aveva accompagnato l'esperienza di Unidad Popular e del governo Allende diviene famosa nel mondo, dalle canzoni degli Inti Illimani ai libri di Skàrmeta, Sepulveda o alle opere del Nobel Pablo Neruda, morto dieci giorni dopo il golpe. La destituzione di Pinochet, sedici anni fa, aprì per il Cile la difficile stagione dei conti con il dittatore ed il suo regime. E iniziarono anche ad arrivare le conferme delle atrocità e anche delle sue connivenze politiche. Si sono avute le conferme - non facili e con molte reticenze - dagli Stati Uniti della compromissione della Cia con molti degli ufficiali di Pinochet, si sono avute le conferme degli enormi spostamenti di capitali che i governi Usa hanno operato negli anni del golpe. Ed anche dei milioni di dollari dei conti intestati a Pinochet scoperti nelle banche estere. Sono i crimini per i quali il dittatore simbolo dell'America Latina è stato arrestato, inciriminato, in parte condannato, ma con cui doveva ancora chiudere i conti la giustizia cilena. Come ha commentato un esule cileno in Italia alla notizia della sua morte, "doveva pagare da vivo".
Angelo Melone
www.repubblica.it


Un altro commento, dello storico Christopher Hitchens:

Vicino a casa mia, a Washington, c’è il monumento in memoria di Orlando Letelier, l’esule cileno ed ex ministro degli Esteri qui assassinato con un’autobomba il 21 settembre ’76. Si capì subito che quell’atrocità senza precedenti (allora) sul suolo americano, e che costò pure la vita a un americano, era stata commessa su ordine di Pinochet. Abbiamo, a riguardo, la testimonianza del capo della sua polizia segreta, il generale Contreras. Il Dipartimento della Giustizia americano aveva aperto un procedimento contro Pinochet, sotto la gestione di Janet Reno. Ma l’atto d’accusa non è mai stato reso pubblico. La morte di Pinochet è l’occasione, tra l’altro, per ricordare le vittime del suo terrorismo (che fu di Stato e internazionale). Pinochet ha fatto la fine di Franco, con una serie di addii sul letto di morte oscenamente protratti. Alla fine i cileni si sono stancati di come Pinochet s’ammalava appena gli atti della giustizia si avvicinavano ai suoi archivi o ai suoi conti bancari. Come Franco, peraltro, è sopravvissuto al suo stesso regime e ha visto il Paese affrancarsi dalla tutela che gli aveva imposto. E, come Franco, s’è guadagnato un posto nella storia come traditore della Costituzione che aveva giurato di difendere. L’aver abbattuto la democrazia civile nel Paese sudamericano dove questa aveva la più lunga tradizione resterà come uno dei crimini più sconvolgenti del ’900. Il suo golpe — 11 settembre 1973, per chi nelle date scruta presagi — è stato un crimine in sé, ma ne ha implicati molti altri. Nel decennio scorso, specie dopo il suo arresto in Inghilterra nel 1998, questi crimini hanno cominciato a portare a lui. Pinochet si era organizzato un’immunità a vita e un seggio al Senato per una graduale uscita di scena. Ma a Madrid un magistrato aveva ottenuto un mandato di cattura per la sparizione di cittadini spagnoli. Il mandato di Garzón trovò attuazione a Londra e fu l’inizio della fine. Tornato in Cile, il generale si trovò di fronte a una società civile posseduta da un’altra consapevolezza. Io stesso andai a testimoniare davanti al giudice Guzmán, il magistrato che lo accusò e di fatto gli prese le impronte digitali: mi raccontò che all’inizio lui stesso era stato un sostenitore del golpe e che proveniva da una famiglia di militari che riteneva Pinochet un salvatore. Fu solo quando studiò gli incartamenti giudiziari— tanti e incontrovertibili, con uccisioni, torture e rapimenti — che capì di non avere scelta. Probabilmente crimine peggiore fu l’Operazione Condor, coordinamento tra le polizie segrete di Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Ecuador, Brasile. La rete arrivò a uccidere anche a Roma nel caso del democristiano Bernardo Leighton, e Washington. Ma il Cile era pieno di terrificanti casi di ammazzamenti extragiudiziari, carceri segrete e centri di tortura come la famigerata Villa Grimaldi, in un contesto generale di repressione e terrore. Questi decenni furono un incubo che per milioni di persone è ancora ieri. C’era chi sosteneva come Pinochet avesse tolto i ceppi all’economia cilena e lasciato spirare la brezza monetarista alla Friedman.
Tuttavia i paladini del libero mercato probabilmente non credono che per attuare quelle politiche si debba torturare, uccidere o fare i dittatori. Ho sentito recentemente Isabel Allende dire che nessuno oggi tenterebbe il programma statalista di Unidad Popular dello zio. Ma Allende non ha mai ordinato di far sparire nessuno, ed è morto con coraggio al suo posto, e tanto basta per fare la differenza. D’altro canto, l’attrazione di Pinochet per le privatizzazioni è stata spiegata quando i conti della fallita Riggs Bank di Washington hanno mostrato ingenti depositi segreti a suo nome. Questo, combinato con il cinismo dei suoi temporeggiamenti, ha reso fetido il suo nome. I cileni hanno restaurato la democrazia senza violenza e hanno applicato questa condotta anche a Pinochet. Ma c’è un prezzo per la lentezza e l’accuratezza di questi procedimenti. Molti cileni non sanno nulla dei loro cari spariti. Mai che Pinochet abbia dato un’informazione o abbia dimostrato pentimento. Come Milosevic (un altro che si è fatto beffe della giustizia sino alla morte) e Saddam è stato arrogante fino all’ultimo. Il Cile e il mondo se ne sono sbarazzati. Che almeno la sua rozza battaglia di retroguardia ci aiuti a dar vita ai tribunali internazionali che stanno nascendo.
www.corriere.it


Scusate la mia sparizione, ma sono ritornato i Italia per qualche giorno e mi è stato difficile aggiornare il sito. Come saprete l'ex-dittatore Pinochet è morto, tra il pianto di alcuni e il giubilo di (credo) molti. Un po' di commenti, per non dimenticare (inizio con un "moderato" come Sergio Romano):

Il tiranno ambiguo e il té con la Thatcher
Se potesse dare un’occhiata alla carta politica dell’America Latina negli anni ’70, il lettore constaterebbe che i regimi erano quasi tutti autoritari e che i generali, anche quando non esercitavano direttamente il potere, lo sorvegliavano dalle caserme e non perdevano occasione per richiamare all’ordine i governi. Ma Augusto Ugarte y Pinochet, presidente del Cile dal 1973, divenne immediatamente per la maggior parte delle democrazie occidentali il peggiore dei tiranni, il simbolo della reazione, l’uomo più detestabile dell’emisfero meridionale.
L’atto d’accusa era lungo. Aveva ucciso una promettente democrazia. Era direttamente o indirettamente responsabile della morte di un presidente socialdemocratico, amato e ammirato dall’opinione progressista europea. Aveva brutalmente perseguitato i suoi oppositori. Aveva trescato con i servizi segreti degli Stati Uniti. Aveva creato con i suoi colleghi della regione una spietata organizzazione poliziesca che inseguiva e colpiva, anche al di fuori delle Americhe, i militanti della democrazia latino- americana. E aveva sfruttato il potere per accumulare all’estero una considerevole fortuna. Quando cadde nella rete di un giudice spagnolo, durante un viaggio a Londra, un ministro laburista ricordò di avere sfilato per le vie della sua città nel 1973 contro i responsabili del golpe cileno. Ed è probabile che i suoi ricordi abbiano avuto una certa influenza sul modo in cui il governo britannico cercò di assecondare per qualche settimana la politica giudiziaria del magistrato Garzon.
Fra un tiranno vivo e un tiranno morto corre tuttavia una fondamentale differenza. Il vivo va criticato e combattuto. Il morto deve essere collocato nel suo contesto storico e, nei limiti del possibile, spiegato. Occorre ricordare anzitutto che per più di vent’anni, dopo la rivoluzione castrista del 1959 e lo sbarco degli esuli cubani nella Baia dei Porci, l’America Latina oscillò continuamente fra avventure populiste, colpi di Stato militari, tentativi rivoluzionari, guerriglia urbana. Mentre le sinistre denunciavano i putsch e i golpe della destra, i moderati dell’Occidente contemplavano con preoccupazione la spedizione rivoluzionaria del Che in Bolivia, le operazioni dei montoneros in Argentina e dei tupamaros in Uruguay, i maoisti di Sendero Luminoso in Perù: un cocktail rivoluzionario composto da un po’ di marxismo, una dose non piccola di vecchio anarchismo spagnolo e molto comunismo cinese, vale a dire la speranza che la rivoluzione, dopo quanto era accaduto a Cuba, potesse scoppiare anche là dove l’economia aveva caratteri prevalentemente agricoli e il proletariato era contadino. Chi ebbe l’occasione di visitare l’America Latina in quegli anni ricorda le postazioni di mitragliatrici sui tetti degli aeroporti e la presenza ossessiva di uomini armati in qualsiasi cerimonia ufficiale.
In questo panorama di regimi traballanti, continuamente in bilico fra rivoluzione e reazione, esisteva un caso a parte. Nella seconda metà degli anni Sessanta il Cile era il Paese prediletto dalle democrazie cristiane dell’Occidente, il regime politico in cui Eduardo Frei, eletto alla presidenza nel settembre 1964, avrebbe dimostrato che la via europea alla democrazia era possibile. L’elezione di Salvador Allende suscitò qualche preoccupazione per la forte presenza di gruppi massimalisti nella suamaggioranza, maera pur sempre un evento democratico. La situazione cominciò a peggiorare quando fu chiaro che Allende era un uomo probo, stimabile, animato dalle migliori intenzioni, ma troppo debole per controllare i suoi alleati più radicali e per resistere alle loro pressioni. Il golpe fu opera di Pinochet e di una conventicola di militari, sostenuti in una forma o nell’altra dal governo degli Stati Uniti. Ma Allende non sarebbe caduto così rapidamente se il putsch delle forze armate non fosse stato preceduto dalle clamorose proteste dei ceti sociali e delle categorie professionali (i camionisti ad esempio) che erano scesi in piazza per protestare contro una politica economica visibilmente sbagliata e una inflazione galoppante.
Dopo la conquista del potere Pinochet si comportò come Franco dopo la fine della guerra civile spagnola. Anziché proporsi la riconciliazione nazionale, fece perseguitare, imprigionare, torturare ed eliminare migliaia di dissenzienti. Tutti i governi democratici europei deplorarono gli avvenimenti cileni e alcuni di essi richiamarono in patria gli ambasciatori. Ma molti, fra cui probabilmente la Santa Sede, tirarono un sospiro di sollievo. Comincia da quel momento la lunga stagione dell’ambiguità. Il regime era autoritario e repressivo, ma chiedeva consigli, per la riforma del suo sistema pensionistico, a Milton Friedman, vale a dire all’astro nascente del monetarismo liberale, e lanciava evidenti segnali di progresso economico. Quando scoppiò la guerra delle Falkland, Pinochet, anziché schierarsi con i colleghi argentini, sostenne la Gran Bretagna: un gesto che gli assicurò da quel momento la stima e la riconoscenza di Margaret Thatcher. Ripercorrendo le tappe della sua vicenda londinese, i cronisti ricorderanno che qualche giorno prima del suo arresto il generale aveva preso il tè con la Lady di Ferro. Fra tanti vizi e manifestazioni di spietata durezza, il regime di Pinochet ebbe il merito di organizzare, sia pure con qualche riluttanza, la sua uscita di scena. La costituzione del 1981 confermò il generale per sette anni alla presidenza della Repubblica, ma stabilì che il rinnovo del suo mandato sarebbe stato sottoposto a un referendum popolare. E il popolo, quando poté votare, lo congedò con il 56% di no. Se nel 1998, dieci anni dopo, non fosse andato a Londra per un intervento chirurgico, il corso della storia cilena sarebbe stato forse diverso. Ma il suo ritorno in patria, dopo le disavventure londinesi, e le tortuose peripezie giudiziarie di questi ultimi anni, dimostra che Pinochet continuò a essere sino alla fine, per i democratici del suo Paese, un caso delicato da maneggiare con molta cautela. Chiusa la bara, tutto forse diventerà più semplice. Ma toccherà ai cileni, non a noi, scrivere l’ultimo capitolo di questa storia latino-americana.
Sergio Romano
www.corriere.it

lunedì, dicembre 04, 2006

L'altra notizia del giorno, l'infarto che ha colpito Pinochet. Un commento appropriato di L. Sepulveda, da La Repubblica:

Troppe complicità per chi ha tradito un paese
di LUIS SEPULVEDA

Sono chiuso in casa da tre settimane per terminare un romanzo, senz'altra compagnia se non quella del mio cane Zarko e del mare, felice tra i miei personaggi, ma dalle prime ore di domenica, ho cominciato a ricevere delle telefonate dei miei amici e amiche del Cile. "Prepara i calici", mi dicono dal mio lontano paese. Ho pronta una bottiglia di Dom Perignon in frigorifero. È un riserva speciale e me la regalò a questo fine il mio caro amico Vittorio Gassman una sera a Trieste. "Spero che la berremo insieme", mi disse in quell'occasione e sarà così, perché a casa mia c'è un calice che porta inciso il suo nome. Alla radio, una voce dice che il tiranno sta davvero male e che, a quanto pare, stavolta la Parca se lo porterà all'inferno degli indegni, anche se noi cileni non ci fidiamo mai delle repentine malattie che lo colpiscono ogni volta che deve affrontare la giustizia. Vorrei essere in Cile tra i miei cari e condividere con loro la spumeggiante allegria di sapere che finalmente finisce l'odiosa presenza del vile che ha mutilato le nostre vite, che ci ha riempito di assenze e di cicatrici. Pinochet non solo ha tradito il legittimo governo guidato da Salvador Allende, ha tradito un modello di paese e una tradizione democratica che era il nostro orgoglio, ma in più ha tradito anche i suoi stessi compagni d'armi negando che gli ordini di assassinare, torturare e far scomparire migliaia di cileni li dava lui personalmente, giorno dopo giorno. E come se non bastasse, ha tradito i suoi seguaci della destra cilena rubando a dismisura e arricchendosi insieme al suo mafioso clan familiare.
L'ex dittatore paraguayano, Alfredo Stroessner, è morto poco tempo fa nel suo esilio brasiliano, pazzo come un cavallo, dichiarando persone non gradite in Paraguay cento persone al giorno i cui nomi estraeva dall'elenco del telefono di Sau Paulo. Pinochet, invece, muore simulando una follia che gli permette fino all'ultimo minuto di fare assegni e transazioni internazionali per nascondere la fortuna che ha rubato ai cileni. Muore amministrando il suo bottino di guerra con la complicità di una giustizia cilena sospettosamente lenta. Smette di respirare un'aria che non gli appartiene, di abitare in un paese che non merita, tra cittadini che per lui non provano altro che schifo e disprezzo. Ma muore, e questo è quello che importa. La sua immagine prepotente di "Capitán General Benemérito", titolo di ridicola magniloquenza che si autoconcesse, svanisce nella figura dell'anziano ladro che nasconde il suo ultimo furto tra i cuscini della sedia a rotelle. Ma muore, e questo è quello che importa. Prima di tornare al mio romanzo, apro il frigorifero e palpo il freddo della bottiglia. Poi dispongo i calici con i nomi dei miei amici che non ci sono, dei miei fratelli che difesero La Moneda, di quelli che passarono nei labirinti dell'orrore e non parlarono, di quelli che crebbero nell'esilio, di quelli che fecero tutte le battaglie fino a sconfiggere il miserabile che ha gettato un'ombra sulla nostra vita per sedici anni ma non ci ha tolto la luce dei nostri diritti. Con tutti loro brinderò con gioia alla morte del tiranno.

Un commento di Maurizio Chierici, de L'unità, alla vittoria di Chavez.

Cure mediche per tutti, case al posto di baracche

A Caracas stanno contando i voti elettronici con qualche macchina in tilt, ma exit poll e sondaggi sono d´accordo: vittoria comoda di Chavez. Senza un colpo di scena viene confermato presidente. Fa parte del gioco venezuelano che l´opposizione non si rassegni. Risultati contestati, tensione che continua, almeno per un certo tempo. Legittimato dal successo, il presidente andrà avanti con le riforme disegnate negli ultimi otto anni. La maggioranza della popolazione lo segue: cure mediche per tutti, case al posto delle baracche, ragazzi all'università con stipendio minimo, nuove città che vuotano le favelas attorno linee ferroviarie inventate dal «regime». Due gli scenari: uno interno, l´altro internazionale. Nelle ultime ore della campagna elettorale, Chavez ha annunciato di voler riformare la costituzione: propone l´elezione indefinita del capo del governo. Prima del referendum che ha cambiato le regole della carta magna, il presidente del Venezuela restava in carica un solo mandato. Sono diventati due, adesso si vorrebbe aprire la possibilità di una riconferma «fino a quando gli elettori cambieranno idea». Continuità senza limiti temporali. «Modulo castrista», è la protesta di Rosales, candidato sconfitto. «Necessità per completare le opere che trasformano il Venezuela in un paese moderno e socialmente giusto», risponde il governo. Ambizione realista perché il Venezuela esce da 40 anni di democrazie corrotte, paese moderno in senso medioevale: strutture sofisticate nel settore petrolifero alle quali si contrappone l'arretratezza di una nazione molto ricca ma senza veri ospedali, nessuna ferrovia, abbandono delle classi meno felici ormai maggioranza della popolazione e un'agricoltura incapace di mettere a tavola 24 milioni di persone in un posto fertilissimo largo un milione di chilometri quadrati. «Bisogna cambiare ma il cambiamento non può dipendere in eterno da un solo uomo», sempre Rosales, il cui pragmatismo lo ha spinto a copiare nel programma gli interventi sociali di Chavez, cambiando appena i nomi. Scandalizzata l'ala destra dello schieramento che lo appoggia: aperture non liberiste, eccessivamente populiste. Ma era l'ultimo tentativo per agganciare la speranza. L'altra intenzione che allarma chi si è battuto contro Chavez non è una promessa della campagna vittoriosa, solo due parole lasciate cadere durante la conferenza stampa con giornalisti stranieri. Chavez non scarta l'idea di non rinnovare il permesso (scade nello 2009) dell'uso di frequenze ai media elettronici, radio e Tv che hanno guidato le strategie per mandarlo a casa: dal colpo di stato, allo sciopero petrolifero, assalto finale nella campagna elettorale. Ma i ministri e consiglieri di Chavez sono preoccupati per un altro scenario: la strategia della tensione che accompagnerà le proteste contro i «brogli elettorali», improbabili, comunque insignificanti vista la differenza abissale dei voti che dividono i due contendenti. Si contesterà il Consiglio Elettorale che ha accolto ogni regola richiesta dall'opposizione, meno il voto elettronico affidato a una società Usa. Gli scrutatori- controllori del voto nei seggi sono stati sorteggiati a caso. Marina Corina Machado e quasi tutti i membri del Sumate, organizzazione cardine nell'opposizione (finanziata ufficialmente dalla Ned, National Endowment for Democracy, e dalla Usai, Agency for International Development agenzie del dipartimento di stato); Maria Corina e gli altri hanno avuto l'incarico, da parte del governo, di vegliare sulla regolarità delle operazioni. Maria Corina, portavoce Sumate, alla ribalta per la foto mano nella mano con Bush davanti al camino della Casa Bianca, ha passato la domenica nella postazione elettorale numero tre, municipio Sucre, stato di Miranda. Si è lamentata con due segnalazioni veniali, niente più. Ministri e consiglieri del presidente rieletto sono preoccupati dall'ipotesi di una strategia finora collaudata con successo in altri paesi, sempre Ned e Usaid dietro le quinte, sempre protagonista, sotto i riflettori, un' agenzia specializzata nei sondaggi: Spen, Schoen § Bertland, sede Washington. Il Guardian di Londra spiega con quale procedura interviene nelle campagne elettorali. Le accompagna con rilevazioni il cui impegno è sgretolare le vittorie annunciate da ogni altra agenzia, destabilizzando l'opinione pubblica con sospetti di brogli. Alla vigilia del voto di Caracas, mentre sondaggi nazionali e Usa davano Chavez in vantaggio col 15, 20 per cento di voti in più, Spen, Schoen § Bertland annunciavano il pareggio tecnico, risultato che «precipiterà il Venezuela nel caos». Fino all'ultimo minuto ogni giornale, ogni radio e ogni Tv privata, media dominanti dell'informazione venezuelana, lo hanno ripetuto agli elettori. Impaurendoli. Prematuro quando i voti sono appena contati prevedere cosa può succedere dopo la sconfitta: solo ipotesi del vertice Chavez. Sfogliando altre elezioni nelle quali era presente la Spen, Schoen § Bertland, una costante raccoglie curiosamente protagonisti e strategie che in qualche modo ricordano il Venezuela di oggi anche se realtà sociali e politiche appartengono ad altre latitudini: Bielorussia 2003, Georgia, 2004, Ucraina. Per caso anche lì lavorava in sincronia il trittico Ned, Usdai e Spern, Schoen § Bertland. In Bielorussia contestano le previsioni di vittoria del candidato ufficiale. Perdono quando si contano i voti, ma trionfano nelle piazze eccitate dalle ipotesi catastrofiche seminate durante la campagna elettorale. In Georgia la Rivoluzione delle Rose rovescia Shevardnaze, e in Ucraina manda via il vincitore filo russo insediando Yushenko. Attenzione, siamo alla periferia dell'impero Putin, l'America Latina é diversa e la fantapolitica di questa paura sembra irrealizzabile. Irrealizzabile perché è cambiato il panorama regionale, ma non solo. Le elezioni 2006 fanno sventolare altre bandiere in America Latina: Correa in Ecuador e Ortega in Nicaragua, Morales in Bolivia (finanziati da Chavez), ed anche la moderazione di Kirchner e Lula (Argentina e Brasile) considera Chavez un alleato sicuro. In più negli Stati Uniti è successo qualcosa. La vittoria dei democratici cambia nel senato il presidente comitato esteri per gli affari latino americani: Christopher Dood prenderà il posto del repubblicano Thomas Shannon il quale aveva sostituito Otto Reich, tutore del colpo di stato 2002 contro Chavez. Dood diventa l'uomo chiave nei rapporti tra il grande paese e il continente sud. Senatore del Connecticut, negli anni ottanta ha tessuto la pacificazione dell'America Centrale attraversata da guerriglie e squadre della morte. Si è impegnato «molto seriamente» contro l'embargo a Cuba: «Perché dobbiamo farci odiare da popoli che poi accogliamo quando lasciano i loro paesi costretti da turbolenze in qualche modo protette da certe nostre agenzie?». Dodd ha una eccellente opinione dei presidenti latini eletti negli ultimi mesi: dalla Bachelet a Correa dell'Ecuador passando da Lula. Qualche dubbio sul Messico sconvolto dal dualismo Calderon (presidente costretto a giurare con l'affanno di un perseguitato) e Lopez Obrador, leader della sinistra. «La sinistra esiste perché esiste l'ingiustizia sociale, ed è irreale pensare di far sparire con qualche artificio governi eletti democraticamente. Bisogna ridimensionare la sinistra radicale dialogando con politici normali e non si diventa normali solo perché amici degli Stati Uniti». Le idee di Todd sono chiare. Di Chavez cosa pensa? «È un protagonista molto importante nell'emisfero occidentale ma credo debba modificare il linguaggio. Chiede agli Stati Uniti di migliorare il dialogo, ma lo dice in modo tale da rendere difficile qualsiasi miglioramento».

www.unita.it


Non ho avuto molto tempo di aggiornare il blog. Me ne scuso con i lettori. Nel frattempo riporto le notizie di oggi sulla vittoria di Chavez. Dal Corriere della Sera:

Trionfo di Chavez: «Lezione agli imperialisti»
Il presidente rieletto con largo margine. Secondo gli ultimi dati, ha ottenuto il 61% dei voti
Chavez festeggia la vittoria
CARACAS - Hugo Chavez è stato rieletto presidente del Venezuela con un largo margine. Con l'80% delle schede scrutinate, l'ex colonnello dei parà ha ottenuto il 61% dei voti contro il 38% dello sfidante, Manuel Rosales, che ha dapprima denunciato irregolarità e poi ha ammesso la sconfitta. «Abbiamo dato un'altra lezione di dignità agli imperialisti, è un'altra sconfitta per l'impero di Mr.Pericolo», ha dichiarato Chavez ai sostenitori festanti usando uno dei nomi con cui irride a George W. Bush. Chavez ha poi dedicato la sua vittoria al leader cubano Fidel Castro.L'ALTRO CANDIDATO - «Riconosciamo che oggi ci hanno battuti, ma continueremo la lotta», ha detto dal canto suo Rosales, 53 anni e 10 figli. Chavez ha già vinto le elezioni nel 1998 e nel 2000, ma se i dati fossero confermati questo sarebbe il suo miglior risultato elettorale.GLI USA - Per Washington la rielezione del leader venezuelano rappresenta un altro brutto colpo dopo i successi di tre esponenti della sinistra latino americana nelle ultime cinque settimane: Rafael Correa in Ecuador, Luiz Inacio Lula da Silva in Brasile e Daniel Ortega in Nicaragua.

www.corriere.it